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La Mercury 1951 di Bob Hirohata (realizzata da George e Sam Barris) è, per tutti gli hot rodders, il prototipo della custom car: subito dopo la fine del secondo conflitto mondiale, chi non voleva correre il rischio di essere colto sul fatto dalla Polizia nel pieno di una sfida illegale sui viali di Los Angeles metteva in pratica tutte le tecniche usate sui lakes per rendere più filante la propria vettura, impiegando carrozzerie recenti, anche perchè la S.C.T.A. non accettava coupes e berline interpretando restrittivamente il termine hot roadster.

Custom car significa, letteralmente, auto in costume e può essere considerata una fuoriserie realizzata artigianalmente, come tutti gli altri hot rods. Sotto il profilo della classificazione (molto specifica soprattutto nei primissimi anni sessanta) la custom car deve avere una carrozzeria realizzzata da una fabbrica di automobili dopo il 1948. Le custom cars hanno origine da una restrizione regolamentare dettata dalla South California Timing Association la quale, dopo l’introduzione di carrozzerie profilate aereodinamicamente (esempio classico la Ford coupè 1936) realizzate a Detroit, proibì la loro partecipazione ai meetings di velocità essendo che hot rod (contrazione di hot roadster) potevano solo essere carrozzerie “roadster”. La Roussetta Timing Association approfittò della restrizione per ammettere queste vetture ai propri meeting di velocità, ma una grande maggioranza di street rodders preferì applicare le tecniche di modifica al profilo generale della carrozzeria (abbassamento sul telaio, taglio del padiglione, restringimento della sezione frontale) per esibire su strada auto relativamente recenti (e molto diffuse) che presentavano un look più aggressivo per usarle quotidianamente.

Dopo le modifiche alla carrozzeria ed alla verniciatura standard, si iniziarono a mettere le mani negli interni, nel cofano motore, nel bagagliaio e persino nel sottoscocca.

In pratica una custom car è la totale rivisitazione, secondo canoni estetici personali, di una vettura in regolare produzione: le cromature possono essere aggiunte od eliminate; la verniciatura è frutto di un laborioso processo di preparazione e rifinitura che può richiedere, per ottenere l’effetto ottico desiderato, anche più di quaranta mani di vernice; l’abitacolo è totalmente spogliato e ricostruito anche usando componenti di ultima generazione su una vettura di cinquant’anni; la motorizzazione è, generalmente, quella originale ma curata a livello maniacale sotto il profilo del’efficienza e del look (con abbondante impiego delle cromature e/o di particolari cromati); il bagagliaio è generalemnte rivestito in armonia con l’abitacolo e dotato di accessori quali trousse surdimensionata di attrezzi, taniche per olio, acqua e benzina; il comfort a bordo è assicurato da condizionatori d’aria autocostruiti, strumentazione personalizzata ed impianti di riproduzione del suono che seguono i gusti del proprietario; infine il sottoscocca è generalmente cromato di modo che l’esibizione in uno Show consenta di esaltare al meglio la cura impiegata in “tutta” la vettura.

La custom car era (fine anni cinquanta, primi anni sessanta) classificata secondo rigorosi principi riconosciuti in tutti gli Stati Uniti, specie nell’assegnazione dei premi messi in palio negli Shows: Mild, Moderate, Semi, Full e Radical customs costituivano vere e proprie Categorie basate sulla progressiva elaborazione della carrozzeria che poteva, o meno, consentire il riconoscimento del modello di auto dal quale il customizer era partito. Finchè si arrivò alla realizzazione di esemplari unici realizzati da zero (from scratch) che potevano non avere nulla a che fare con qualsiasi auto mai prodotta: le show-cars di quegli anni potevano riprodurre una locomotiva od una cabina telefonica, un carro funebre od una sala da bagno su ruote.

Molto probabilmente quegli eccessi determinarono la fine dell’epoca d’oro delle esibizioni organizzate e consentirono la nascita delle street-machines, veicoli sempre modificati, soprattutto nella meccanica e telaistica, ma senz’altro più adatte ad essere guidate su strada.

La custom car è oggi ritornata di moda, soprattutto come veicolo daily-driven, ma è anche un impegno per i collezionisti che tentano di riportare alle condizioni originali vecchi esemplari dimenticati e/o abbandonati: anche ai giorni nostri, comunque, le esagerazioni non mancano: i più recenti vincitori degli Show tradizionali sono vere “concept car” realizzate su ordinazione, il cui costo può ruotare intorno al milione di dollari.

Originalmente la custom car era costruita, come lo hot rod, nel garage di casa, dal proprietario: nel 1947 a Los Angeles, però, erano già operativi e fiorenti almeno una dozzina di “Custom Shops”, carrozzerie specializzate nella realizzaione di interni personalizzati ed in lavori di carpenteria metallica oltrechè in verniciature particolari. Il successo di un Custom Shop era basato sulla personalità artistica o sull’abilità manuale di uno o due hot rodders che avevano iniziato l’attività fornendo ad amici il medesimo tipo di modifica applicato al loro hot rod od alla personale custom car: il passa-parola nell’ambiente l’unico mezzo promozionale che poteva procurare i Clienti. Il più antico Custom Shop di cui si abbia notizia certa è il Carson’s Top Shop, specializzato nella realizzazione di capotes in tela imbottite ed abbassate, già noto alla fine degli anni venti del secolo scorso. Altri customizers, dai fratelli Sam e George Barris ai contemporanei Coddington e Trepanier, si sono affermati anche attraverso la fabbricazione di veicoli impiegati in films e serial televisivi che sostituiscono, nel circuito espositivo, le show cars di un tempo.

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Fotografia d’epoca (primi anni cinquanta) di un gruppo di custom cars appartenenti ai membri di un Club: notare che i modelli di auto comprendono diversi model years e Marche.

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La custom car degli anni cinquanta era generalmente “channeled” (abbassata sul telaio), chopped (tetto ribassato rispetto all’altezza originale) e dotata di elementi decorativi (cromature laterali e mascherina del frontale) “swapped” (trapiantati) attingendo da altre auto.

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“A’ La Kart”, di George e Sam Barris, è uno dei primi tentativi di rendere “custom” uno hot rod. Fu la prima vettura a vincere per due anni di seguito uno Show e finì bruciata in un incendio.

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Le edierne tendenze del customizing privilegiano le linee pulite che ricostruiscono quelle originali: il lavoro non è semplice e spesso porta ad esborsi considerevoli, non sempre giustificati e giustificabili.

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“Manta Ray” è un classico, e riuscito, esempio di radical-custom. Nella realizzazione di una macchina come questa non è facile mantenere il senso delle proporzioni ed il buon gusto: spesso si eccede.

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Questa Chrysler Imperial del 1957, di D’Agostino, è un buon esempio di come una vettura di produzione possa essere modernizzata con lavori di dettaglio ed una opportuna verniciatura.

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La custom car attuale beneficia delle nuove tecniche: verniciatura “ton sur ton”, eliminazione totale delle cromature, abbondanza di elettronica nella gestione di tutte le operazioni a bordo. Immancabile la scelta di cerchioni “unici”.

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