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Il vocabolo “hot rod” ha un’unica possibile spiegazione: si tratta di un vocabolo contratto, da “hot roadster”, che designa una vettura aperta, di tipo sportivo, sottoposta a migliorie estetiche e meccaniche, tali da soddisfare pienamente i desideri di chi così la ha voluta. A mio parere “hot rod” è anche intraducibile.

“Hot roadsters” erano, innanzitutto le Ford T roadster modificate per correre sugli ovali; in seguito gli hot rods e gli hot rodders migrarono sui lakes del Sud California. Le modifiche apportate a Tin Lizzie si incentravano sull’abbassamento dell’altissimo centro di gravità, sulla radicale riduzione della sezione frontale, su modifiche apportate alle elementari sospensioni e su affinamenti aereodinamici, oltrechè potenziamento del propulsore, cambio e trasmissione. Quando dal turning-left si passò ai tentativi di velocità sui laghi disseccati, molte delle mofìdifiche apportate in precedenza vennero utili, ma si comprese anche come la coppia necessaria ad uscire dalle curve non fosse più necessaria e si dovesse, invece, curare la progressione nell’erogazione dei cavalli e modificare i rapporti al cambio ed al ponte.

Tutte le esperienze di tipo sportivo, quali i lavori di abbassamento della carrozzeria sul telaio, il profilo tondeggiante del muso modificato e la sistemazione del propulsore, avevano contribuito a trasformare la T, alta e monumentale, in un veicolo simpatico e filante che attirava l’attenzione. Cerchioni in tinta con la carrozzeria (non più nera, in moltissimi casi) e sapiente uso delle cromature con il motore in vista erano destinati a diventare, attraverso migliaia di varianti, un simbolo della gioventù e del progresso che poteva, a ragione, vantarsi dell’appellativo “hot”, caldo, rovente, alla moda, addirittura futurista.

Il passo successivo si ebbe dopo il 1928, con la presentazione del motore ad otto cilindri disposti a V, destinato alla sorella maggiore della T, la Ford A. Lo “swapping” (trapianto) dell’ 8V tra le travi del telaio di una T non solo garantiva una maggior potenza evitando costose elaborazioni al quattro-in-linea, ma addirittura offriva un “sound” molto più soddisfacente e coppia usufruibile anche in istrada, sulle salite, in percorsi accidentati. Il prototipo del vero hot rod era finalmente nato: condensava in un unico mezzo di trasporto una certa quantità di “messaggi” (come si direbbe oggi) diretti a chiunque lo avesse osservato: il proprietario non era un “tipo qualunque”; era persino possibile che, durante i week-ends frequentasse circuiti ovali o lakes; aveva le idee chiare in fatto di meccanica ed estetica; era possibile che avesse fatto gran parte del lavoro da solo; cercava, evidentemente, amici ed una ragazza con i quali e la quale dividere la sua “creatura”.

In sintesi, un nuovo e dirompente, provocatorio “status symbol” inventato di sana pianta, proposto come guanto di sfida e pronto ad accettare nuovi e pù impegntivi confronti: al di la della retorica è proprio questo ciò che i teen-agers degli anni venti e trenta del secolo scorso volevano, pur non rendendosene pienamente conto: “lo facevamo per divertirci”, dicono i protagonisti.

Il più grosso contributo, del tutto involontario, che hot rods ed hot rodders ottennero in risposta, fu il richiamo di decine di migliaia di teen agers sotto le armi, con lo scoppio della seconda Guerra Mondiale: per dozzine di mesi gli scanzonati ragazzotti furono sottoposti a prove terrificanti e ad un corso intensivo di elettromeccanica ed idraulica che avrebbe modificato per sempre il loro approccio con i mezzi di trasporto. Al rientro in patria le conoscenze tecnico pratiche acquisite permettevano di credere, con il conforto dell’esperienza, che qualsiasi particolare meccanico poteva essere migliorato e modificato.

Di conseguenza, qualsiasi veicolo poteva essere personalizzato, trasformato e stravolto nella stessa filosofia di progetto: già nel 1950 hot rod poteva essere qualsiasi automobile originariamente prodotta a Detroit e ci si stava già preparando a guardare al mondo delle due ruote, pronti anche ad affronare aviazione e marina.

Più o meno verso la seconda metà degli anni sessanta entra in campo la seconda generazione di hot rodders, nuovi e diversi teen-agers che ammirano le realizzazioni dei “fratelli maggiori”, ma che non ne capiscono, fino in fondo, le motivazioni: è giunto il momento delle domande, delle spiegazione, delle classificazioni su base tecnica. Va bene la Ford Model A, anche berlina, ma che dire della Chevrolet Bel Air o della Corvette? E’ questo il periodo in cui i”puristi” sostegono che “hot rod può essere qualsiasi auto modificata, purchè originariamente prodotta prima del 1948” ed i più intransigenti vorrebbero addirittura che ci si limitasse alla produzione anteguerra. Non rimane che rispondere con i fatti. I quali puntualmente arrivano a demolire l’inesistente e impossibile recinto immaginario, mettendo le mani sulle recentissime “muscle cars”.

Oggi, e con tutta probabilità anche domani, “hot rod” è (e sarà) qualsiasi veicolo sottoposto a lavori “artigianali” di  miglioria estetica, meccanica od ergonomica al solo scopo di soddisfare pienamente le esigenze (di qualsiasi natura) del proprietario.

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A sinistra: ecco come una Ford T poteva acquistare vantaggi aereodinamici con lavori di abbassamento della carrozzeria sul telaio, restringimento del corpo vettura ed eliminazione dei parafanghi, predellini e parabrezza.

A destra: la T di Phil Weiand. A diciassette anni rischià la vita e rimase paralizzato, ma prima di morire volle ricostruire totalmente la sua vettura.

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A sinistra: la “Chrisman 25”, una track-roadster famosissima, poi migrata sulle drag strips. La T è stata trasformata in una “single seater” o monoposto.

Dopo la primitiva evoluzione, gli hot rods hanno rappresentato la palestra per la craftmanship e per l’ingenuity degli hot rodders: quì sotto alcuni esempi (tra le decine di migliaia di veicoli costruiti in tre quarti di secolo) dell’inventiva di questi “apprendisti stregoni” della meccanica.

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Non sempre la funzionalità delle elaborazioni meccaniche si sposa con l’estetica: ma da questi primi, incerti, passi si imparò attraverso il “trial and error”.

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Una “roadster” pensata per le competizioni (ovali o miglio lanciato sui lakes) adattata per circolare su strada.

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Una Ford A 1929 clonata dalle track-roadsters e rifinita di tutto punto per non sfigurare sulla Main-Street.

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Il classico hot rod realizzato con il body di una Ford T 1925  e motorizzata Buick da Tommy “TV” Ivo, attore della televisione e famosissimo drag racer negli anni sessanta e settanta.

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Una Ford A del 1930 così come appariva negli anni ‘50: la verniciatura era definita “scalloped”, moltissimi partcolari cromati e l’aggiunta di elementi decorativi (oggi non più attuali) come quelli sul radiatore. Gomme a fascia bianca.

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Il fascino di questa “Five-Windows” stava nella doppia personalità: “street and strip”. Gli scarichi e le sospensioni posteriori sono chiaramente destinati al quarto di miglio, ma la vettura era guidata tutti i giorni.

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Questa Ford Coupe del 1937 è presentata così come dovevano apparire le coupes rifiutate dalla S.C.T.A. perchè “non roadsters”. Il lavoro è iniziato con una nuova tappezzeria nell’interno e si aspettano tempi migliori per procedere all’elaborazione estetica. Padiglione “chopped”.

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Anche questo coupe 1932 presenta il tetto abbassato, le gomme a fascia bianca, un Chrysler ”Firepower” e chissà quali altre modifiche. Attualmente l’aria “trascurata” delle prime realizzazioni sta ritornando di moda.

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Questa curatissima ed elaboratissima Ford A 1932 coupe appare sulla copertina di un album dei “Beach Boys” e rappresenta la moda imperante a cavallo degli anni sessanta e settanta.

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Uno hot rod ancora basato sulla Ford A roadster (1932 è l’anno classico) realizzato ai giorni nostri: la carrozzeria è leggermente modificata, privata delle cromature ma la presenza di “big’n’littles” e la mancanza dei parafanghi ne fa inequivocabilmente un vero hot rod.

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Per contrastare le “muscle cars” e le loro prestazioni anche gli hot rods hanno irrobustito telaistica, meccanica e carrozzeria per adeguarla a più esaltanti prestazioni.

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Questa Chrysler “Airflow” del 1936 rappresenta una nuova sfida proposta con lo slogan “dare to be different” per evitare la ripetizione dei classici clichès troppo diffusi. Secondo questo movimento qualsiasi modello non troppo sfruttato può essere realizzato come “hot rod”.

The Cool Hot Rod - 1953 - Part 1

The Cool Hot Rod - 1953 - Part 2

The Cool Hot Rod - 1953 - Part 3

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