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“Open Wheels” o “ruote scoperte” è un’espressione poco usata: molto più comune la dizione “vetture di formula”. Concettualmente si risale al vecchio “macchina da corsa” che rendeva bene l’idea di un veicolo concepito per le competizioni.

Nel motorismo americano sappiamo che l’inizio delle competizioni su pista risale agli ultimi anni del 1800 (Secolo XIX) utilizzando prototipi di vettura e vetture di produzione allo scopo di testarne le prestazioni massime: con l’arrivo di Henry Ford sul palcoscenico motoristico si impone la sua idea di sfruttare le competizioni a fini pubblicitari fornendo l’esempio con il Reparto Esperienze Speciali della Ford Motor Company, affidato a Franck Kulich.

I primi vent’anni del Secolo XX (1900-1920) sono caratterizzati dal dilagante dominio delle Ford “model T” appositamente preparate e modificate, genericamente conosciute come “stripped Tees”, ossia “T spogliate”: la monumentale linea di “Tin Lizzie” viene ridotta ai minimi termini “spogliandola” di parabrezza, parafanghi, capote, fanaleria, predellini e quant’altro poteva appesantirla od ostacolarne (aereodinamicamente) l’avanzamento. Con il passare degli anni si abbassa il corpo vettura sul telaio, si arrotonda il muso, si armonizzano le linee laterali restringendo il corpo vettura fino a farlo diventare un “single seater” (monoposto).

Sotto il profilo meccanico e telaistico ruote e sospensioni vengono adattate al nuovo assetto mentre il 4 cilindri in linea (circa 2.800 cc) subisce modifiche avanzatissime: già intorno al 1915 (anno dello scoppio della Prima Guerra Mondiale in Europa) sono disponibili kits di modifica che vantano doppio albero a cammes in testa, alberi, bielle e pistoni speciali, modifiche all’accensione originale e sistemi di lubrificazione che possono garantire potenze quintuple rispetto ai 18 HP del motore uscito dalla Fabbrica:  queste modifiche presuppongono l’impiego di cambi a 4 marce (Muncie) e differenziali “Ruxtel” oltre a cerchioni “Buffalo”.

Le “stripped Tees” corrono ovunque, dalle Board Tracks (v. The Track) ad Indianapolis ed instaurano l’abitudine di correre sugli ovali di qualsiasi lunghezza, pavimentazione e inclinazione.

L’organismo incaricato di regolamentare le competizioni automobilistiche era “American Automobile Association”, un Ente non-profit e prevalentemente un aggregato di Clubs già esistenti, noto come “triple A”, fondato il 4 Marzo 1902. La sua capacità di imporre l’autorità necessaria a regolare competizioni è stato messo in dubbio da più di un americano, anche se, bene o male, la sua presenza è documentata in più di un caso. Per anticiparne la conclusione è da notare che, inaspettatamente, la “Triple A” proclamò il proprio autoscioglimento il 3 Agosto 1955. Durante il suo ultracinquantennale regno la A.A.A. si occupò della Pikes Peak, dei primati di velocità e di tutte le competizioni che si svolgevano in America.

Dopo il dominio e la popolarità della Ford “model T” il panorama popolare del motorismo sportivo era destinato a cambiare durante gli anni quaranta, specialmente sulle piste ovali, grazie all’intervento di due uomini: Kurtis Kraft e Fred Offenhauser. Kraft nacque il 25 Gennaio 1908 a Crested Butte in Colorado; Offenhauser nel 1888 a Los Angeles. Nonostante la differenza notevole d’età, i due uomini, entrambi innnamorati di velocità, motori ed auto, riuscirono a creare una nuova tendenza nel turning left americano. Con l’aiuto di un terzo uomo, Harry Arminius Miller, la cui fotografia è in testa alla pagina “100 years ago”.

In breve, da questo connubio nacquero le “midgets” (folletti) e le Indy cars “roadsters” motorizzate Offenhauser, un quattro cilindri prodotto in differenti cubature, doppio asse a cammes in testa, dalle prestazioni incredibili, accerditato di un dominio durato oltre vent’anni. Kurtis Kraft forniva telaio e carrozzeria, Offenhauser il propulsore anteriore, indifferentemente per midgest ed Indy cars. Il disegno complessivo della vettura si potrebbe definire l’evoluzione del roadster in single-seater dal gradevole aspetto e dalle linee essenziali, in certa misura pure “aereodinamicamente” efficiente, “maggiorata” quando si trattava di correre nel famoso catino dell’Indiana o su altre paved tracks (dopo il 1959): creando il “prototipo” della open wheels, Kraft riuscì a fornire un’immagine riconoscibilissima della vettura da competizione, immediatamente accettata dal grande pubblico. Se uniamo al cocktail un motore di 4 litri capace di erogare oltre quattrocento cavalli è pacifico giustificare trenta vittorie alla “Indianapolis 500” e la creazione di un vero e proprio mito.

Il trend durò fino alla prima metà degli anni sessanta, quando gli europei (Cooper e Chapman), approfittando della pavimentazione (1962) di Indianapolis, proposero la “funny car” a motore posteriore, super-ribassata, con il pilota sdraiato in un abitacolo realizzato su misura e propulsore Ford 8V. Nel frattempo la regolamentazione del turning left era diventata competenza della “United States Auto Club” sotto l’egida (dal 1956) del “Automobile Competition Committee for United States” (ufficialmente fondato nel 1959) che rappresenta gli U.S.A. in seno alla F.I.A. di Parigi. Nel 1979 la staffetta passa a “Championship Auto Racing Team”, C.A.R.T. che inizia la danza delle successioni, diatribe legali e crisi, culminata nella clamorosa bancarotta del 2003; nel frattempo i ventilati e possibili accordi per unificare Formula 1 e “open wheels” di stampo americano subiscono “stop and go” continui che non hanno ancora concluso nulla di positivo.

La svolta avviene nel 1994, quando Tony George, l’ultimo proprietario della Indianapolis Motor Speedway, compie una mossa a sorpresa, imponendo il “copyright” sul nome “Indy” e suoi derivati. Da questa mossa nasce la “Indy Racing League” che propone vetture di formula con propulsore di 4 litri alimentato a metanolo: sul campo si gettano General Motors (Oldsmobile con i propulsori “Aurora”) e Nissan con la serie “Infiniti”. Chevrolet ed Honda, già impegnate durante gli anni ottanta, rimangono fuori ed, addirittura, Chevrolet chiude ufficialmente il progetto “Indianapolis” con la fine della stagione 2005. Fa immediatamente seguito la rinuncia di Toyota, che preferisce la serie “covered wheels” N.A.S.C.A.R. e sul campo rimangono i protagonisti di oggi: Dallara e Panoz per i telai, Honda per i propulsori: questi ultimi, denominati “H15R” hanno una cilindrata di soli 3 litri, cinque bronzine di banco, pistoni in alluminio forgiato, doppio albero a cammes in testa con quattro valvole per cilindro ed erogano circa 650 HP, una cifra modesta se paragonata agli ottocento cavalli della N.A.S.C.A.R., ma contano, però, su flussi e carichi aereodinamici e su telai molto ben studiati. Per questa serie di ragioni le “formula Indy” e la loro gestione costano molto meno delle loro lontage “cugine” di F.1. Si dice che la scala di valori sia intorno ad una frazione (1-2/10) rispetto ad un team competitivo europeo.

Lo sforzo di promuovere la “Indy Racing League” si basa anche sulla denominazione uguale a quella dei più popolari sports di squadra (basket e football) e conta su un imponente dispiego di attività mediatiche (televisione in primis) che è culminata con il passaggio all’alimentazione ad “etanolo” (distillato da prodotti agricoli), spinta attraverso una campagna di impronta “ecologica”.

Come spesso avviene, ed in passato è più volte capitato, la “major league” rappresenta la punta dell’iceberg, potendosi basare su vivai che, a livello di base, sono molto più ampi del vertice e contano su tutt’altro tipo di vetture, pur sempre “open wheels”. Affrontare questo discorso è semplicemente assurdo: i cambiamenti che avvengono in differenti Stati, l’evoluzione continua delle necessità contingenti, gli interessi economici dei Proprietari degli impianti ed i progressi tecnologici (accettati o respinti), rendono impossibile creare un quadro chiaro e preciso.

In sintesi, comunque, l’appassionato ed il giornalista possono capire quale sia la scala di valori in campo.

Primo gradino rimane la “midget” nella sua tradizionale scala di valori (“micro”, “mini”, “half”, “three-quarter” e “full-size”) che permette a bimbi di 5 anni (“micro-midget”) di iniziare ad imparare i rudimenti della guida, del comportamento in pista e dei valori umani: uno dei motivi per cui è possibile arrivare a sedici anni, già sapendo come si conduce un veicolo nel traffico. Non più strutturata come le Kurtis Kraft di cinquant’anni fa, la midget attuale può essere squadrata o tondeggiante (a livello visivo), ma è sempre basata su un robusto telaio integrato da roll-cage; può essere, o meno, dotata di vistosi alettoni sitati sul pilota e sul muso (dette anche “winged”); può infine cambiare denominazione (“sprint car”) a seconda dell’Organizzazione di appartenenza e del tipo di pista che frequenta. Motorizzazioni che vanno dal monocilindrico del tosaerba (“micro midget”) fino ai 4, 6 ed 8V con limitazioni che solo un’attenta lettura del “rulebook” può permettere di capire.

Regine delle “short tracks” prevalentemente in terra, le midgets gareggiano su anelli di 1/4 di miglio o 1/2 miglio e forniscono uno spettacolo seguitissimo da nugoli di parenti, amici e conoscenti dei piloti i quali affidano loro anche il ruolo di improvvisati team-manager e meccanici o carrozzieri, a seconda dei casi: il turning left, a questo livello, è un vero “family affair” diffusissimo.

Subito sopra, le “modifieds” che non hanno alcun nesso con la comune accezione di questo termine, in quanto “built from scratch”, o costruite di sana pianta attorno al solito rollcage compreso nel telaio: motorizzazioni più generose e piste più lunghe (generalmente le “intermediate tracks” lunghe fino ad un miglio) affinano le doti di controllo delle sbandate in gruppo ed i primi rudimenti del comportamento “in scia” nei grupponi o “trenini” di vetture (“bunch of snakes”, mucchio di serpenti, per l’aggressività della guida).

Le “Late Models” (già viste anche nelle “covered wheels”) hanno un ruolo più importante: sono “stock appearing cars” private dei parafanghi o ridotte nella sezione frontale fino ad escludere dal “body” le ruote, riconosciute da ogni Association che includa nel regolamento una qualsiasi forma di “open wheels”. Si potrebbe dire che colui il quale inizia a gareggiare con una Late Model sta affrontando l’esame di ammissione alla guida di una “vera” open-wheel, quelle che possono correre sulle paved-tracks più importanti a livello nazionale.

Al vertice della piramide si trovano le vere e proprie “Indy cars” che, tuttavia, possono essere più o meno diffuse, importanti, potenti e guidabili da un “rockie”: esempio le “Junior Indy” e le vetture del CHAMP-CAR. Queste ultime, in genere, eredità della disciolta C.A.R.T., corrono su tracciati che sono oval-tracks in minima parte, comprendendo “road courses” (tracciati stradali) quali possono essere Portland, in Oregon, ove avvengono i test di inizio stagione; Huston, Texas nel Reliant Park; Cleveland, Ohio, ricavato da parte di un aereoporto; ed alcuni “circuiti cittadini” quali Denver, Colorado e San Jose, California. Inaspettati due circuiti situati all’estero quali sono il “Surfers Paradise” sulla Gold Coast australiana e l’ “Autodromo Hermanos Rodriguez” a Mexico City.

Le “ChampCar”, curiosamente sono più potenti delle Indy Cars: basate su un telaio dal passo di 300 o 320 centimetri, che consente una lunghezza variabile da 480 a 510 centimetri, sono mosse da un 8V Ford Cosworth di 2.650 cc. alimentato a metanolo capace di erogare fino a 850 cavalli. La velocità massima raggiungibile su circuiti molto veloci è vicina ai 390 km/h. Molto diverse le specifiche di peso, un centinaio di chili più di una Formula 1. A livello visivo le Champ Cars sono facilmente confondibili con le Indy Cars, anche se mancano della caratteristica “gobba” posta alle spalle del pilota sulle ultime.

Le Indy Cars, in ogni caso, data la lunghezza dei rettifili e la simmetricità delle curve, consentono il raggiungimento delle medie più alte sul giro ed in gara: per questo la loro guidabilità è alquanto più difficile e prevede la ormai nota trafila delle qualifiche che, nel caso di Indianapolis, consente l’accesso in gara ad un numero limitato di concorrenti. Dopo qualche anno in cui i concorrenti ammessi furono 40, per desiderio del presidente Carl Fisher, si instaurò la regola dei 33 partenti, imposta dalla A.A.A., a partire dal 1915. Alcune eccezioni si sono verificate saltuariamante per vari motivi: le ultime nel 1979 e 1997 con 35 piloti al via.

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L’evoluzione della Ford “model T” attraverso continue modifiche ha portato alla creazione del “roadster”, una vettura sportiva la quale, attraverso due distinti filoni, avrebbe dato origine alle “open wheels” ed allo hot rod classico e “streetable”. L’aspetto più vicino alla realtà degli anni venti e trenta del secolo scorso è qui rappresentato, con l’immancabile trapianto dell’8V noto come “immortal flathead”.

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L’evoluzione successiva alla comparsa del “track roadster” è la “midget”, il folletto delle piste: piccola, leggera, potente e ben controllabile è stata la “scuola guida” per centinaia di Campioni, successivamente arrivati a Daytona od Indianapolis.

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La classica midget, disegnata e realizzata da Kurtis Kraft con motorizzazione (ridotta) Offenhauser, è questa: tra le altre cose protagonista di “To Please A Lady” con Clark Gable, film “cult” prodotto nel 1950.

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Quì a fianco una “Winged Sprint Car”: è un gradino sopra la midget e monta un alettone responsabile della sua denominazione. La grossa appendice aereodinamica ha lo scopo di “supportare” i logo degli sponsors e permette di pensare che con il finanziamento ottenuto questo tipo di vettura sia più performante delle “non winged” (perchè, in genere, non molto sponsorizzate). L’alettone proibito dalla U.S.A.C. causò una rivoluzione sfociata nella costituzione di un nuovo Organo legiferante: il “World of Outlaw” o mondo dei fuorilegge, abbreviato in W.o.O.

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La “modified” è il primo, vero passo verso la guida impegnativa ad alte velocità, su piste più lunghe. La regolamentazione varia, a volte, da Stato a Stato ed alcune piste impongono propri Regolamenti esclusivi.

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“Open wheels Late Model” è il tipo di vettura raffigurata a fianco. La regolamentazione molto simile a quella della corrispondente ruote coperte. Gare e Campionati molto accesi.

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“Junior Indy” una specie di vettura-scuola per la preparazione più approfondita alla guida sugli anelli d’alta velocità. Impossibile stabilire limiti e fornire dati: le regolamentazioni variano continuamente a seconda della Association di appartenenza.

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La “ChampCar”  corre su circuiti più simili ai tradizionali tracciati della F1. Sono vetture più potenti della Indy Cars e generalmente più guidabili dai principianti perchè le alte velocità raggiungibili sugli ovali non vengono toccate sui circuiti di tipo stradale.

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Le silhouettes di due Indy Cars proposte dagli unici due costruttori di telai che partecipano alla I.R.L.. Notare che nessun contratto è ancora stato siglato per il 2007.

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Le specifiche di massima di una IndyCar.

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Una visione della pit-lane alla 500 Miglia di Indianapolis del 2006: i meccanici in pista sono limitati a sole 5 unità.


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