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Ottocento cavalli erogati da un motore di quasi sei litri, aste e bilanceri ed un solo carburatore quadricorpo, rappresentano un mistero per molti. In modo particolare quando si precisa che questo motore “gira” al massimo regime per la bellezza di ottocento chilometri: l’esatto contrario di quanto accade nel “drag racing”. Le tecniche basilari per ottenere questi risultati sono note a tutti gli hot rodders: “blueprinting”, “rebuilding”, “fine tuning”.

Il “blueprinting” prende il nome dalle vecchie copie cianografiche (antenate della moderna fotocopia) che l’Ufficio Progetti di una Grande Casa Automobilistica distribuiva ai vari reparti incaricati di realizzare i motori in centinaia e migliaia di esemplari. Essendo copie fedeli del progetto originale le “blueprints” riportavano tutte le misure e le tolleranze indicate dagli ingegneri. Quando le varie Associations iniziarono a regolamentare le Classi “STOCK”, gli hot rodders si accorsero che i “dati teorici” indicati nei Rulebooks quasi mai coincidevano con la realtà dei fatti perchè ogni motore aveva una sua storia sulla manutenzione, un suo chilometraggio, in breve una sua cilindrata e valori di coppia e potenza non corrispondenti alla teoria: l’esame del perchè portò a concludere che se si volevano sfruttare i valori teorici ammessi si dovevano riportare le misure e le tolleranze effettive a quelle di progetto.

Il programma di blueprinting (programma perchè composto da una serie di operazioni consecutive e concatenate) presuppone lo smontaggio del propulsore dalla vettura e la sua scomposizione nei vari elementi: monoblocco diviso in parte inferiore e superiore (“bottom end” e “upper end”), albero motore, bielle, pistoni; testate comprensive di valvole; condotti di aspirazione e scarico; sistemi di alimentaziione elettrica e del carburante; impianto di lubrificazione e raffreddamento.

La fase successiva prevede la misurazione dei componenti (alesaggio del pistone, lunghezza delle bielle, ecc.) e la verifica degli allineamenti con l’impiego di strumenti di precisione, sempre perchè se gli Ingegneri hanno previsto una tolleranza di due decimi di millimetro non è possibile misurarli se non con uno strumento opportunamente tarato. Misurazione non si limita ai dati geometrici ma presuppone anche operazioni di pesatura (ad esempio il peso dei vari pistoni) e di bilanciamento (albero motore).

Il programma di blueprinting prosegue con una serie di operazioni meccaniche effettuate con l’esclusivo scopo di portare ogni singolo componente il più vicino possibile alle dimensioni teoriche e, quindi, ai presumibili valori del suo teorico rendimento. Si parla di teoria perchè il disegno sulla carta, ad esempio, prevede un preciso angolo di inclinazione delle bancate, un’uniformità della densità delle fusioni e di perfetta rotondità di una circonferenza che ben difficilemente corrispondono alla realtà di una lavorazione nella catena di montaggio.

Terminato il lavoro “manuale” (anche se prodotto da macchinari quali il tornio o simili) si deve procedere al rimontaggio verificando che effettivamente angoli, lunghezze, diametri, pesi e relative tolleranze siano il più possibile simili al progetto originale. Ovviamente gli specialisti consigliano di sostiituire con ricambi nuovi tutto ciò che può essere sostituito, come le bronzine, le guarnizioni e le molle, verificando preventivamente che il nuovo “sia migliore del vecchio”.

Il blueprinting può anche prevedere che un condotto di aspirazione o di scarico venga “lucidato” per meglio favorire il flusso della miscela aria-carburante o che (se ciò e consentito dalla regolamentazione) il “gomito” di una tubazione venga lavorato con il medesimo scopo: tutto per garantire il miglior “breathing” (respiro) del propulsore.

La fase di montaggio delle varie parti misurate e verificate con i dati teorici costituisce la fase finale del progetto, seguita soltanto da una eventuale ulteriore verifica al banco-prova dinamometrico, dove non è infrequente scoprire che il “vecchio” motore, ora, assicura prestazioni migliori fino al 10% in più rispetto ai valori precedenti.

Il “rebuilding” è una serie di operazioni del tutto simile al blueprinting ma riguarda, in genere, particolari quali un cambio, il carburatore, una pompa, una tubazione che vengono separate dal propulsore e “ricostruite” utilizzando parti nuove quali guarnizioni, molle ed ingranaggi: il rebuilding, come il blueprinting, presuppone che sul banco d’officina vi sia un testo, un disegno, una “vista esplosa” del particolare da ricostruire: la letteratura in materia è abbondantissima (negli U.S.A., ovviamente).

Blueprinting e rebuilding riguardanti particolari che concernono il flusso dell’aria o della miscela possono essere verificati mediante l’impiego del “flow-bench”, un apparecchio (realizzabile in officina od acquistabile già pronto) il quale, nonostante le dimensioni relativamente importanti è semplicemente un barometro che misura, attraverso appositi terminali (tubi di minimo diametro) la pressione “relativa” (rispetto all’ambiente esterno) in un condotto, nella testata o negli scarichi: il flow-bench permette di testare diversi particolari, calcolandone la resa, e di scegliere il più adatto sia in relazione alle necessità che nel rispetto della regolamentazione. Frequente la verifica affidata al flow-bench della effetiva portata di un carburatore o della opportunità di adottare “Jigleurs” (spruzzatori) di diverso diametro soprattutto in relazione alle condizioni atmosferiche.

Tutte le operazioni fin qui descritte potrebbero far parte del “fine tuning” o messa a punto di precisione, se non fosse che in un veicolo da competizione la resa finale, in pista ed in gara, dipende anche da altri fattori: ad esempio dal perfetto allineamento del telaio, anche in conseguenza di un passo differente tra il lato destro e quello sinistro (vale anche nel drag racing, oltrechè nel turning left) ed i conseguenti angoli di attacco e distanze di lavoro dei bracci delle sospensioni e dello sterzo a loro volta collegati da molloni di cui deve essere conosciuta la resistenza al carico e verificata la posizione geometrica degli attacchi; gli allineamenti tra frizione, cambio (laddove previsto) asse di trasmissione e differenziale. A proposito di cambio e differenziale il fine tuning prevede la verifica di ogni singolo ingranaggio e dei relativi “denti”, le tolleranze ottimali tra i vari ingranaggi sia sul relativo albero che tra le rispettive circonferenze teoriche.

Lo scopo finale di blueprinting, rebuilding e fine tuning (completati da verifiche al flow bench ed al banco) è quello di produrre, in valori di coppia e potenza, esattamente ciò che l’ingegnere od il preparatore hanno calcolato (oggi sempre più spesso al computer): solo con questa lunga e noiosa trafila si possono ottenere i 775 HP SAE prodotti da un motore N.A.S.C.A.R.

Non è, tuttavia, da dimenticare il lavoro di progettazione e costruzione che avviene a monte: il monoblocco ed ogni singolo bullone impiegati nel “building” di un motore, di un cambio, di un tubo o di un cerchione provengono da Produttori di “aftermarket parts”, spesso ex hot rodders o racers, altrettanto frequentemente giovani tecnici e laureati che portano nuova linfa nel mercato delle special parts: ad esempio è ormai noto che le tecniche di fusione di un monoblocco sono non solo avanzatissime, anche verificate con tests non distruttivi quali l’indagine magnetica o ad ultrasuini delle fusioni stesse, successivamente certificate, pezzo per pezzo, con copia delle analisi completate in fase di collaudo, prima dell’immissione sul mercato.

Ciònonostante ed a dispetto delle opinioni (assolutamante infondate) correnti in Europa, il costo di un veicolo progettato per il turning left è nettamente inferiore a quello di una vettura da competizione “classica”, semplicemente perchè le jalopies, le midgets, le modifieds, le late model e le stock cars di varia natura sono molto più diffuse di quanto non siano le vetture di Gruppo N, le storiche e le varie “formula” che corrono in Europa.

Questo tipo di sport non sarebbe così  diffuso se, accanto alle prestazioni, all’eccitazione del pubblico ed alle riprese televisive od ai periodici specializzati non facesse da corollario un elemento importantissimo: la sicurezza.

Non parliamo di roll-cages, di cinture o serbatoi antiesplosione, che pure esistono, sono obbligatori e certificati. Parliamo della loro diffusione in seguito ad un’offerta qualificata che risponde puntualmente alla domanda, superando gli standards. Parliamo dell’obbligatorietà di corrispondere alle specifiche stilate da avanzati Istituti quale il SEMA Foundation Inc., parliamo di verifiche periodiche le quali, se mancanti, spediscono a casa il più qualificato, noto e preparato tra i drivers, equiparato, di fatto, al rockie, senza alcun tipo di timore reverenziale.

Ma parliamo anche di investimenti, nella sicurezza. Pavimentazioni rifatte con cadenza quadriennale, in alcuni casi, sempre con l’applicazione di “debris fence” (reti che limitano la probabilità di proiezione di parti di vettura sulle tribune) per quattro chilometri di tracciato e l’affiancamento ai muretti  esistenti delle barriere ad assorbimento d’energia S.A.F.E.R. delle quali pare nessuno sappia nulla in Europa, parliamo di dozzine di telecamere e di teams professionali altamente addestrati nelle tecniche di salvataggio e recupero, parliamo di “Jaws of Life” presenti sulle strips, sulle tracks, sulle road courses a partire dal 1972.

Non vi è peggior sordo di chi non vuol sentire, dice un vecchio adagio: ed è sempre così, quando si tira in ballo l’architettura ad aste e bilancieri che nussuna utilitaria in Europa usa più. Ben detto. Non per questo nessuna pista europea permette il sorpasso “in sicurezza” se non in prossimità di una curva o di una chicane, ovvero a bassa velocità e non a duecento o trecento chilometri all’ora. Senza contare che quaranta vetture in una singola competizione sono semplicemente impensabili, nel vecchio Continente, pur se la tecnica in esse contenuta è “assolutamente superiore a quella delle vetture da competizione americane”. Anche il loro costo. Se così vi piace ...

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A sinistra: la originaria location del Garage in cui lavorava Smokey Yunich, il famoso “The Best Damn Garage in Town”: Yunich fu uno dei più prolifici e geniali tra gli hot rodder che si dedicarono al “turning left”, sia su covered wheels che sulle open whells.

A destra: lo schema applicativo delle “S.A.F.E.R. barriers”: all’esistente muretto in cemento (in bianco) vengono addossate, ad intervalli regolari, fasci di elementi in materiale plastico, coperti, all’esterno, da tubi quadri deformabili.

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L’apparato di uomini e mezzi, della squadra di pronto intervento operativa ad Indianapolis: il personale è addestrato ed aggiornato periodicamente e dotato di ogni possibile strumento di soccorso.

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A proposito di tecnica nel mondo del turning left, ma anche in campo storico, un approfondimento molto consigliato è la lettura di “The Best Damn Garage in Town” scritto da Smokey Yunick. Il linguaggio usato è puro “southern slang”, non mancano le espressioni “colorite” e divagazioni personali in molti campi. Ciò che conta è una verità, del tutto inedita, sul mondo “racing” dal 1950 in avanti, spesso coperta da interessi di comodo.

Ricordo che Yunick è stato titolare di molti brevetti, inventore di un nuovo tipo di motore e meccanico eccelso.

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