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E’ innegabile come la “motorizzazione di massa” possa creare domanda sul mercato dei ricambi. Quando, però, la motorizzazione di massa diventa fatto compiuto la domanda è centrata, quasi esclusivamente, su accessori e “special parts”.

Neopatentato a Torino, agli inizi degli anni sessanta, esercitavo il mestiere di venditore per la Olivetti: ho avuto occasione di visitare molte delle Ditte storiche che gravitavano nel cosiddetto “indotto” dell’automobile. Accanto alle forniture per la produzione, quasi tutte le Aziende tentavano di proporre linee di accessori “personalizzati”: Torino era una marea di 500 bianche, di seicento del medesimo colore e di molte “millecento” bicolore, così come accadeva in tutte le altre città d’Italia. La mascherina sul cofano, il volante ed il pomolo del cambio, i terminali della marmitta od i coprisedile avevano il compito di rendere la vettura distinguibile dalle altre; se il proprietario, prima di scendere dalla vettura e chiuderla a chiave, si portava sottobraccio l’ “estraibile” (leggi autoradio), l’orgoglio saliva alle stelle.

Da questa tendenza estemporanea nacquero le linee di Abarth, Giannini e Nardi fino al momento in cui un egualitarismo senza precedenti ebbe la meglio. Non si sa perchè, almeno ufficialmente.

Di conseguenza, per oltre trent’anni, la media divenne inevitabilmente grigia e neppure un paio di adesivi accanto alla targa ebbero il potere di modificare quello che chiamo “intoccabile monolito automobile”. L’indotto fu costretto a gettare tra i rifiuti patrimoni tangibili di impianti e macchinari, a lasciare sul lastrico migliaia di lavoratori ed a rinunciare al sogno di rendere auto e moto altrettanto personali quanto gli abiti, la casa e l’impianto stereofonico.

Gli americani erano considerati fabbricanti di “barconi inguidabili, stracarichi di pinne ed inutili comodità più degne del salotto di casa”, mentre i “giapponesi” (orientali, per estensione) “clonavano” i modelli europei in quanto mancanti della necessaria tecnologia, ed erano considerati “concorrenti di cui non tenere conto”.

Nel 1963 un gruppetto di uomini che ben possono essere considerato “l’alter ego” americano di Abarth, Giannini e Nardi, affrontò il problema di tutelare il proprio “Marchio di Fabbrica” che veniva impunemente riprodotto, in scala ridotta, sui modelli commercializzati come scatola di montaggio in materiale plastico, in milioni di esemplari.

La prima battaglia legale affrontata dalla "Speed Equipment Manufacturers Association" (SEMA) riuscì a stabilire il diritto ad una royalty per ogni esemplare prodotto dai Produttori di modellini, finanziando le successive espansioni: oggi la “Specialty Equipment Market Association” organizza annualmente il SEMA SHOW, basato su 100.000 Espositori provenienti da 100 Nazioni del Pianeta e visitato da tutti i Media possibili ed immaginabili, italiani compresi.

Tenuto conto che i Produttori a livello mondiale di automobili non possono essere centomila, nè che in cento Nazioni esistono Fabbriche di automobili, si dovrebbe pensare, a rigor di logica, che almeno 90.000 “stands” non siano affittati ed approntati da Case Automobilistiche. Oltre 6.000 Membri della SEMA ed 8.000 della AAIA Automotive Aftermarket Industry Association non portano necessariamente, considerando sottomarche, stands multipli e duplicati, a 100.000: quindi molte Nazioni, anche produttrici di presunti “cloni”, hanno compreso l’importanza di quella vetrina internazionale e non presentano di certo agrumi, granaglie o prodotti tipici: solo “aftermarket” parts.

Mi pare logico affermare che la “motorizzazione di massa” è arrivata al livello di globalizzazione e che i Produttori hanno compreso l’importanza della “personalizzazione” ad ogni livello come elemento indispensabile per mantenere vivo il Mercato ed affrontare, con qualche chanche di successo, le mosse della Concorrenza.

Ciò che non si vede nei reportages televisivi e che non si legge nei resoconti giornalistici su carta stampata, a proposito di SEMA SHOW, sono hot rods e custom cars, drag cars e stock cars, dune buggies e monster trucks, chopper e tractor pullers.

Una buona parte dei misteriosi stands che non si vedono e di cui non si parla (oltre a quelli delle Big Three, degli Europei e delle Orientali) sono centrati sulle varie attività legate allo hot rodding ed al “tuning” delle import cars (in U.S.A.).

Il SEMA SHOW è soltanto “la punta dell’iceberg” nell’ organizzazione “Specialty Equipment Market Association” e, come chiaramente recita la sigla, ci si occupa di Market e Marketing. Agli inizi, nel 1963, qualcuno, proprio in U.S.A., sosteneva che una tale Organizzazione non sarebbe arrivata alla fine dell’anno: troppo specifico lo scopo (difendere i marchi dalla semplice imitazione su modellini) e quasi ignoti i fondatori: Roy Richter, Ed Iskenderian, John Bartlett, Phil Weiand Jr., Al Segal, Dean Moon, e Vic Edelbrock Jr.

La forza di questi uomini risiedeva nel contatto quotidiano con gli hot rodders, nella conoscenza dei problemi di chi voleva, a tutti i costi, “un miglio in più, un decimo di secondo in meno” e nella padronanza dei rulebooks. Tutti, nessuno escluso, avevano provato l’ebrezza del miglio lanciato a Muroc o del quarto di miglio a Bakersfield.

Nel giro di dieci anni il SEMA Service Bureau, appositamente creato come “soluzione ai quesiti”, iniziò ad affrontare i problemi squisitamente tecnici legati all’applicazione pratica delle aftermarket parts commercializzate nell’ambito delle discipline sportive, presto trasformato in un Istituto di ricerca, indipendente e senza scopo di lucro, il SEMA Foundation, Inc. o S.F.I.

La logica della “safety” e la rigidità dei tests portarono presto alla generalizzata diffusione delle S.F.I. Specifications in tutti i rulebooks, dalla S.C.T.A. alla N.H.R.A. ed alla N.A.S.C.A.R., fino a che “SFI Specs” non è diventato sinonimo di fiducia cieca e di sicurezza quasi assoluta in qualsiasi particolare (che meriti e riporti la certificazione) impiegato nella costruzione di una street machine o di un Top Fuel, che si tratti di “nut and bolts” (dadi e bulloni) o di un telaio in “chrome moly 4130” (acciaio al cromo-molibdeno).

Il ritorno della politica di marketing, basata su dati di fatto scientifici, più che su roboanti affermazioni folkloristiche, ha portato la SEMA a poter contare su oltre 6.000 Aziende iscritte e legate a “quella” politica ed all’espansione quasi planetaria della propria sfera d’azione: anche se non giustamente evidenziato, persino l’Annuario F.I.A. riporta, in appendice, una panoramica delle S.F.I. Specs.

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