Chi non la pensava in questo modo si sentiva proporre argomentazioni scientifiche e formule elaborate nei secoli da illustri Architetti Navali, i quali, a partire da Leonardo da Vinci, potevano dimostrare come la potenza necessaria a far accelerare un natante provocasse aumenti di massa e di resistenza reciprocamente impossibili da realizzare nella pratica.
“Hot Rod Yearbook n.6”, nel 1967, riporta un articolo a firma di Bill Hayes in cui si presenta la storia (allora recentissima) di un nuovo sport acquatico i cui protagonisti sono “Water Dragsters, the New Breed”: una breve occhiata alle illustrazioni e si capisce subito che scafi da diporto di sei o sette metri “accelerano”; la lettura dell’articolo porta a conoscenza che la velocità raggiunta, dopo soli 402 metri (1/4 di miglio) di percorso, era superiore alle 150 mph, ovvero 240 km/h, ma c’era anche chi aveva stabilito records superiori alle 170 mph (più di 270 km/h).
Rich Hallet era un costruttore di scafi da competizione e conosceva a menadito l’architettura degli “scarponi” che consentono l’ammaraggio degli idrovolanti (anche ad alte velocità, allora comunque irraggiungibili “attivamente” da uno scafo) e la carena “tre punti”, vista per la prima volta in Europa nel 1946 (Trieste, pilota l’americano Boogie).
Nel 1957, dimenticando Hallet per un istante, a Bakersfield, durante il mese di Marzo, furoreggiava il “US Fuel and Gas Championship”, una settimana di drag races tra i Campioni del momento, organizzata dallo “Smokers Club” e dalla locale Camera di Commercio, assiduamente frequentata anche da membri del “Kern County Boat and Sky Club”, un club nautico che si accontentava delle acque del laghetto cittadino sito nell’”Hart Memorial Park”. Furono proprio i più giovani Soci del Club nautico, patiti anche di drag race, a proporre una “gara di accelerazione in acqua” che lasciò interdetto tutto il Direttivo del Club. La partecipazione di 45 “barche” e la presenza di 2000 spettatori paganti, però, fece cambiare idea a tutti e solo due anni dopo la manifestazione fu spostata al “Long Beach Marine Stadium” per poter degnamente accogliere partecipanti e pubblico, lievitati a veri numeri da Stadio.
Rich Hallet, nel frattempo, coinvolto dai Clienti, stava pensando quale tipo di scafo fosse meglio approntare per la drag race in acqua, partendo dall’evidenza dell’impiego di “flat bottom hulls” (carene a fondo piatto) nella costruzione di “sky-boats” che erano anche usate per il traino nello sci d’acqua, pur se motorizzate da 8V automobilistici elaborati.
La formulazione dell’idea di Hallet non rende piena giustizia alla sua intuizione, perchè (soprattutto oggi) pare sin troppo ovvia. Una carena “tre punti” permette allo scafo, man mano che la velocità aumenta, di sollevarsi sul pelo dell’acqua fino ad appoggiare su tre soli elementi che sono i due scarponi anteriori e l’elica (piede dell’elica nel caso di motorizzazione “fuoribordo”) mentre il fondo (la chiglia) rimane fuori dell’acqua, a pochi pollici, praticamente in aria. La propulsione di uno scafo avviene per mezzo della rotazione di un’elica (meccanismo fondamentalmente inventato da Archimede) che si deve “avvitare” nel liquido per “spingere” la barca: ciò avviene senza problemi a basse velocità, mentre aumentando il regime di rotazione si verificano “vuoti” (di “vapore saturo” creato dal “frullamento” dell’elica) aggirabili con un apposito disegno delle pale che, a questo punto, si chiamano “cavitanti” e “supercavitanti” in quanto “fanno presa” anche ad alto numero di giri. Va da se che le eliche supercavitanti erano già adottate nella costruzione di sky-boats, così come l’ingegnoso rinvio a V dell’asse di trasmissione (tra motore ed elica) che permette di spostare a poppa (dietro) il propulsore.
Unendo tutti questi elementi, già noti alla stragrande maggioranza degli Architetti Navali, Hallet immaginò uno scafo “tre punti” con propulsore entrobordo di elevata cilindrata, potenza e coppia, dotato della “V drive” per trasmettere il moto ad un’elica supercavitante che assicurasse propulsione efficiente a tutti i regimi di rotazione: dato che la parte inferiore dello scafo (carena) era destinata a rimanere fuori dell’acqua, pochi metri dopo la partenza, fece in modo che il suo disegno fosse quello di un “tunnel” (creato dagli scarponi ai lati e dalla stessa carena nella parte superiore) in cui il flusso d’aria favoriva la “portanza aereodinamica” di tutto il veicolo: il risultato teorico doveva essere l’eliminazione della resistenza dell’acqua sulla parte bagnata di scafo o la sua riduzione al minimo indispensabile.
Il primo scafo, costruito da Hallet nel 1963 seguendo questi principi, risulta essere “The Thing”, molto simile al secondo, “Banzai”, il cui proprietario, Barry Mc Cown, lo motorizzò con un Chrysler elaborato da Keith Black (compressore volumetrico GMC, accensione Vertex, trasmissione Cragar) sul modello dei propulsori dei dragsters terrestri.
L’unica cosa che mancava erano le “cavitation plates”, uno o più “pattini” fissati orizzontalmente allo specchio di poppa che hanno la funzione di contrastare il sollevamento della prua (muso) quando il flusso d’aria nel “tunnel” inferiore è generosamente alimentato dall’alta velocità.
La lenta e costante evoluzione della “drag boat” ha incontrato non pochi problemi, soprattutto quelli relativi alla sicurezza.
Uno scafo lanciato ad oltre duecento chilometri all’ora si muove su una superficie che “diventa” compatta quanto una colata di cemento armato rappreso: qualsiasi impatto su quel tipo di fondo può avere conseguenze catastrofiche (che si sono, purtroppo, verificate in più di un caso).
Abbandonando il problema di fisica idrodinamica si è dovuto obbligatoriamente affrontare quello di fisica aereodinamica al fine di controllare, al meglio, l’assetto dell’imbarcazione che deve essere il più possibile perfettamente orizzontale rispetto all’acqua: in caso negativo è possibile l’impennata che provoca veri e propri “looping” aerei e termina con una vera collisione contro la superficie: da quì limportanza dell’aereodinamica anche per l’opera morta (parte non bagnata di tutta la barca) e la successiva adozione di veri alettoni a poppa.
Tale tipo di problema si verifica preferibilmente al momento di rallentare il moto, a fine base: la brusca decelerazione è assolutamente sconsigliabile perchè, anche in questo caso, la resistenza opposta dall’acqua aumenta in misura esponenziale e ciò accade letteralmente in frazioni di secondo con il conseguente ed inevitabile “decollo”.
La regolamentazione sportiva ha sempre risposto prontamente ed oggi una drag-boat è un veicolo sicuro almeno quanto lo è un top-fuel terrestre, affidato al pilotaggio di Piloti Pro continuamente seguiti sotto il profilo medico-psicologico: in più la più pura “ingenuity” ha sopperito agli imprevisti, dotando le imbarcazioni (oltrechè del cut-off elettrico e di alimentazione automatico) di seggiolini eiettabili (come quelli dei caccia a reazione) nelle classi meno performanti e dell’intero abitacolo (ancora preso in prestito dall’aviazione militare) per quelle più potenti.
La Classificazione delle drag-boats è dipendente dagli specchi d’acqua sulle quali viene praticata la competizione e prevede una varietà quasi infinita di Classi, a partire dalle moto d’acqua: generalmente basata sul tipo di carena (“flat bottom hulls” per il fondo piatto ed “hydros” per quelle a tre punti) e sulla motorizzazione ed alimentazione: Classi per motori aspirati fuoribordo ed entrobordo, presenza o meno di sovralimentazione, carburante impiegato, più o meno accentuata aereodinamica dell’opera morta e così via.
Le prestazioni attuali delle Classi Hydro sovralimentate è stupefacente: meno di cinque secondi sul quarto di miglio ed oltre 380 km/h a fine base. Unica differenza con la drag rece su asfalto la partenza che è una “rolling start”, o allineamento in movimento come nelle classiche regate.
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